Pur rappresentando un’importante occasione di crescita personale e culturale, i centri estivi non sono accessibili a tutti. In parte per una questione economica, in parte perché, come osservano Openpolis e Con i bambini elaborando i dati di Sogei-Opencivitas, la loro distribuzione sul territorio non è capillare ed è anzi disomogenea.
Il centro di ricerca e l’associazione hanno indagato le cause e gli effetti di questa carenza, evidenziando come contribuisca al fenomeno, già amplificato dalle insufficienze dell’offerta formativa scolastica e in particolar modo alle mancanze relative a un’accessibilità facilitata all’istruzione, della povertà educativa.
Openpolis e Con i Bambini, l’indagine sui centri estivi: il quadro generale
Il primo dato di cui tener conto è il seguente e risale al 2021: sono 9,1 gli utenti di centri estivi e attività pre e post scuola ogni 100 residenti tra 3 e 14 anni. Il numero in pratica che identifica la natura della richiesta. Le regioni più virtuose, che quindi propongono un’offerta adeguata, sono Emilia Romagna e Umbria; mentre le regioni e le città che faticano di più, e ci si riferisce al 60% se si prendono in considerazione i capoluoghi, si trovano al Sud Italia.
Questi dati sono necessari per mettere ordine. Come spesso accade, la forbice tra Nord e Sud è ampia, e sono proprio le città meridionali a mostrare maggiori criticità nell’accesso ai servizi.
“Il tempo libero dei bambini e delle bambine – scrivono gli autori della ricerca – configura un diritto fondamentale del minore, quello al gioco e al tempo libero, protetto dall’articolo 31 della Convenzione sui diritti dell’infanzia. […] Avere accesso a un tempo libero di qualità è un’opportunità preziosa per il loro sviluppo. Non si tratta solo di un momento di svago, ma anche di un’occasione per imparare, socializzare e sviluppare competenze che vanno ben oltre il curriculum scolastico”.
Preso atto del motivo principale per cui è importante dedicare maggiori attenzioni al tema, si osserva anche che i centri estivi e più in generale i servizi pre e post scuola sono utili anche all’equilibrio familiare. Molti genitori non hanno a disposizione tre mesi di ferie; pertanto avere la possibilità di poter affidare la propria figlia o il proprio figlio a una struttura durante il periodo lavorativo estivo, a livello anche logistico, è importante.
La povertà educativa
Va in primo luogo ricordato che i centri possono essere pubblici e privati, per la maggiore sono organizzati dai comuni in collaborazione con le associazioni sociali, culturali e sportive, e sono destinati soprattutto a bambini in età prescolare e agli studenti del primo ciclo di istruzione, con un’età compresa generalmente tra i 3 e i 14 anni.
La loro funzione, oltre che aggregativa e di “intrattenimento”, riguarda anche il contrasto al summer learning loss; in breve, dovrebbe impedire ai più giovani un impigrimento culturale durante i mesi in cui non frequentano la scuola.
Sebbene tutte le ragazze e tutti i ragazzi siano soggetti a una carenza delle competenze acquisite durante l’anno durante il periodo estivo, uno studio targato USA e riportato da InvalsiOpen riferisce della teoria del rubinetto, secondo la quale a essere svantaggiati, anche in questo contesto, sono i giovani che vivono in città o regioni in cui c’è una maggiore fragilità socioeconomica.
Contesto che in Italia si configura nelle regioni centro meridionali e nelle isole. Infatti, le scarse risorse non consentono un accesso facilitato alla cultura, banalmente anche all’acquisto di un libro o di un diversivo educativo.
Nonostante sia quindi accertata l’importanza dei centri estivi, le disparità territoriali e sociali “influenzano la disponibilità e la qualità di queste opportunità. In alcune zone, spesso quelle più svantaggiate, l’offerta è molto limitata se non inesistente, creando un divario che può penalizzare le famiglie meno abbienti” (Openpolis).
Disparità territoriali: la realtà dei dati
Nel nostro Paese, si legge nell’indagine, gli utenti di questi servizi rappresentano circa il 14,5% dei residenti 3-14 anni nell’Italia nord-orientale e il 12,5% in quella nord-occidentale. Nel centro la quota scende al 6,8%; mentre nei comuni del Sud si attesta sul 3,5%. Un dato ancora troppo basso, ma in questo caso in crescita rispetto al 2,2% rilevato nel 2019.
Come si anticipava in apertura Emilia Romagna e Umbria sono le regioni con più offerta di servizi. Mentre le regioni al di sotto della soglia del 5% si trovano nei comuni di 4 regioni: Calabria (4,5%), Puglia (3,5%), Lazio (3,3%) e Campania. Quest’ultima, con 1,9 utenti di servizi extra-scolastici ogni 100 minori tra 3 e 14 anni, occupa l’ultimo posto tra le regioni a statuto ordinario.
Uno sguardo più approfondito alla situazione italiana
Openpolis e Con i Bambini riferiscono che, guardando alle realtà comunali, la dimensione demografica è uno degli elementi che influenza la diffusione del servizio sul territorio.
Infatti nelle zone di minore concentrazione demografica, per dirla in numeri tra i 1000 e i 3000 abitanti, si raggiunge quello che può definirsi il picco. Mentre una percentuale del 10-11% si rileva nei comuni che ospitano da 3000 a 20.000 abitanti.
Un dato che invece lascia delle perplessità è quello relativo alle città con maggiore densità demografica, tra 60.000 e 100.000 abitanti, che invece contano in media 5,9 utenti per ogni 100 minori. Nelle città maggiori, sopra i 100mila abitanti, si torna a crescere con 8,4 utenti di media.
“Tra i soli capoluoghi”, scrivono i firmatari della ricerca, “Cuneo supera i 50 utenti di centri estivi e servizi pre e post scuola ogni 100 bambini e ragazzi. Seguono Venezia (46,4), Rieti (32,4), Perugia (28,1), Arezzo (25,8), Bologna (25,7)”.
Cuneo, perciò, è il capoluogo con più utenti di centri estivi e doposcuola rispetto ai bambini residenti.
Un altro aspetto riguarda “25 capoluoghi su 88 delle regioni a statuto ordinario che non raggiungono la soglia di un utente ogni 100 bambini. Di questi, 15 si trovano nel sud continentale (non sono infatti disponibili i dati per le due isole, così come per le altre regioni a statuto speciale). Significa che il 60% delle città con minore offerta si trovano nell’Italia meridionale, un dato coerente con quello medio dell’area con meno servizi”.