Fast Fashion: la moda è una cosa seria

La moda è una cosa seria, Anna Wintour docet. Mettere in discussione il settore significa andare a indagare un mondo vastissimo fatto di luci e ombre. Molte ombre. Tra queste, quella del Fast Fashion che non riguarda l’alta moda, ma quella a portata delle tasche di tutti. Il termine è apparso per la prima volta sul New York Times nel 1989, in riferimento alla catena di negozi di abbigliamento spagnola Zara.

Lo stesso quotidiano, alcuni mesi fa, è tornato sul tema spiegando quanto durante la pandemia il fenomeno sia diventato ancora più dannoso sia per l’ambiente, sia per i ritmi e le condizioni di produzione. Prima però di capire come la comparsa del Covid abbia contribuito, facciamo un passo indietro e chiariamo cosa si intende per Fast Fashion. 

Cos’è il Fast Fashion e perché dobbiamo preoccuparcene

Un “ciclo aggressivo di consumo perpetuato”, così lo definisce il NYT. All’inizio degli anni ’90 diversi rivenditori del mondo della moda hanno basato la loro proposta su un modello chiamato “risposta rapida” facendo in modo che i capi presentati durante i vari appuntamenti della Settimana della moda venissero esposti e venduti anche nelle grandi catene a buon mercato, quasi in contemporanea con le presentazioni in passerella.

Ovviamente, per non perdere terreno rispetto ai grandi brand del settore, quelli di ordine minore hanno accelerato la produzione servendosi di materiali particolarmente dannosi per l’ambiente e affidando il lavoro a industrie situate in Paesi dove è noto lo sfruttamento del personale; paghe indecenti, orari impossibili. È Zara il capofila di questo meccanismo; subito dopo, considerata la risposta dei consumatori, tantissime catene hanno applicato lo stesso modus operandi: H&M, Primark, TopShop, Benetton e così via. 

Come puntualizza il NYT, le conseguenze di questa attività sono disastrose. “I vestiti che indossiamo oggi più che mai finiscono come parte dei 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili prodotti ogni anno”, si legge sul quotidiano. Poi aggiunge: “[…] Praticamente tutti questi marchi vendono vestiti che contengono fibre sintetiche a base di petrolio e ad alta intensità di risorse come poliestere e nylon. Durante la loro vita, queste fibre sono responsabili del 35% delle microplastiche che contaminano i nostri oceani e possono successivamente impiegare secoli per decomporsi nelle discariche”. In breve, il danno ambientale è catastrofico. 

Il successo del fast fashion

Il punto è che il Fast Fashion consente a chi non può permettersi di aggiornare il proprio guardaroba acquistando capi di alta moda di avere una scelta; una varietà di proposte a bassissimo costo. I consumatori, il più delle volte, sono consapevoli delle criticità che riguardano la produzione di alcune grandi catene, ma il cartellino con il prezzo è più convincente e conveniente. Anche perché, bisogna ammetterlo, la crisi economica che il pianeta sta attraversando non consente di optare per strade differenti. C’è un “ma”: esistono delle proposte alternative, ma sono ancora poco esplorate. Un discorso che andremo ad approfondire più avanti, perché prima è giusto analizzare come la pandemia abbia contribuito a rendere il fenomeno inarrestabile. 

Fast Fashion ed e-commerce: un dominio assoluto

Durante le prime fasi dell’emergenza sanitaria diversi Paesi nel mondo hanno scelto di “chiudere”: un serrato lockdown per contrastare la diffusione del Coronavirus. Trascorrere l’intera giornata tra le mura di casa ha fatto sì che la navigazione online diventasse l’attività principale di moltissime persone; shopping virtuale e scroll incontrollato sui social hanno occupato ore e ore intere.

A cavalcare l’onda di questa strana e inquietante realtà ci hanno pensato grandi nomi, marchi a buon mercato come Shein (che oggi ha più valore di H&M e Zara messi insieme). Questa attività, fino a una settimana fa, esisteva solo online (presto arriverà un punto vendita fisico in Giappone); ciò ha permesso che centinaia di migliaia di spedizioni partissero direttamente dai loro magazzini. In più, come riporta il NYT, la dipendenza dalla manodopera a basso costo all’estero e dai tessuti sintetici mantiene i prezzi bassi.

Cosa rende Shein un colosso imbattibile?

A tal proposito, è necessario far luce sulle dinamiche che rendono Shein un colosso del settore. Grazie ai social e ad algoritmi performanti, il marchio riesce a conquistare milioni di persone nel mondo continuamente. Come se, per assurdo, riuscisse a leggere i desiderata degli utenti ancor prima che questi si rendano conto di averli. Il reporter Iman Amrani in proposito ha condotto un’inchiesta interessante dal titolo Untold: Inside the Shein Machine. Amrani, grazie al supporto di un collega, è riuscito ad infiltrarsi e a ottenere registrazioni e video di quanto accade all’interno delle fabbriche con cui collabora Shein in Cina. 

Ne ha ricavato che lo sfruttamento della manodopera è davvero al limite. Gli operai lavorano per circa 18 ore al giorno e possono contare su sole 24 ore di riposo per l’intero mese. Quanto al compenso, questo si aggira intorno ai 500 euro al mese; un vero e proprio schiaffo alla dignità personale e lavorativa del dipendente.

Turni estenuanti che portano anche a scompensi fisici e mentali, anche perché l’azienda chiede loro la produzione di circa 500 capi ogni giorno. Inutile dire che l’inchiesta ha suscitato grande clamore e che i dirigenti di Shein non si sono lasciati turbare: infatti, hanno subito dato comunicazione di aver avviato un’indagine interna per capire effettivamente come stiano le cose. Nel caso in cui si dovesse rilevare la concretezza di quanto riferito da Amrani, l’azienda concluderà la propria collaborazione con le fabbriche oggetto dell’indagine. 

Come arginare lo strapotere del Fast Fashion

Avendo dunque contezza dei danni prodotti dal Fast Fashion, cosa possono fare i consumatori per arginare il fenomeno? Quanto alla questione ambientale, il consiglio principale è quello di informarsi sulle modalità di produzione: esistono delle aziende che rispettano l’ambiente e lo certificano. Secondo poi, tener conto del fascino dell’abbigliamento vintage.

Dare nuova vita ai vestiti che portano con sé una storia è sostenibile oltre che anche estremamente romantico. In ultimo, l’opzione di riciclo. Un recente rapporto pubblicato da McKinsey rileva che ogni cittadino europeo produce oltre 15 chili di rifiuti tessili in 365 giorni. Pertanto, lavorare sulla raccolta differenziata diventa un obbligo più che una necessità. Se ne è parlato profusamente in vista della Settimana Europea per la Riduzione dei Rifiuti (19-27 novembre 2022) che quest’anno propone come tema principe proprio la raccolta e il riciclo rifiuti tessili. Saranno diverse le attività volte a sensibilizzare produttori e consumatori, in modo da arrivare a rendere più sostenibile il settore. 

Dal punto di vista dello sfruttamento della manodopera i consumatori possono ben poco: spetta alle aziende occuparsi e preoccuparsi delle condizioni in cui vivono e lavorano gli operai addetti alla produzione dei capi di vestiario. Un altro tema che i governi del mondo intendono trattare con concretezza. Anche se, inutile nascondersi dietro a un dito, le azioni attuate in merito sono ancora scarse e non sempre ben verificate. 

La moda è una cosa seria, ma lo sfruttamento della manodopera e l’inquinamento ambientale lo sono di più. 

 

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